......ANDARE OLTRE A CIO' CHE VEDI...ANCHE SE PALPABILE, a volte la realtà è diversa...

Grazie per le vostre 144.000 visite, sono stimolanti .Clicca su foto.

Grazie per le vostre 144.000 visite, sono stimolanti .Clicca su foto.
Gay è bello....anche in vacanza in Vallèe d'Aoste

lunedì 2 novembre 2009

Omaggio a Pier Paolo Pasolini

Non è ancora cambiato nulla !




La vita

"Pagine corsare"
VitaUn delitto politico di Giorgio Galli

Prefazione a Dossier delitto Pasolini
Kaos Edizioni, Milano 2008

Pier Paolo Pasolini venne ucciso all’Idroscalo di Ostia nella notte fra l’1 e il 2 novembre del 1975, l’anno del “terremoto elettorale” alle amministrative di giugno (con la forte avanzata delle sinistre), a metà del decennio della “strategia della tensione” e della lotta armata.

Nato a Bologna da madre friulana il 5 marzo del 1922, Pasolini era una delle personalità più importanti del secondo Dopoguerra italiano, un intellettuale nell’accezione più completa e nobile del termine. Non solo regista cinematografico, poeta e scrittore, ma anche marxista schierato col Pci, polemista “eretico” e omosessuale tormentato. Proprio queste due ultime peculiarità - quella di marxista-polemista, e la sua identità omosessuale - furono gli elementi “politici” che sostanziarono la sua enigmatica uccisione.

Anzitutto, l’omosessualità. In un certo modo, Pasolini andò incontro a quella morte, così come in altro modo vi andò incontro Michel Foucault (altro critico della società post-capitalista, stroncato dall’aids). Entrambi vivevano la omosessualità in modo tormentoso, e la praticavano in maniera mernaria (pagando le prestazioni erotiche dei “ragazzi di vita”). Questo tipo di omosessualità è certo espressione di una storia personale difficile da sondare. Come dato storico-culturale, si può evocare il prezzo che la cultura maschile occidentale, elleno-romana e giudaico-cristiana, è stata indotta a pagare per la repressione del femminile [1]. Poi occorre menzionare l’omofobia che ancora negli anni Settanta del secolo scorso, a dispetto dell’allora nascente movimento gay, allignava nella società italiana, accomunando la destra reazionaria e la sinistra comunista.

L’identità politica di Pasolini marxista, e la sua attività di veemente polemista contro il Palazzo e contro la Dc (soprattutto dalle pagine del più autorevole e diffuso quotidiano italiano, il “Corriere della sera” diretto da Piero Ottone), furono subito sospettate di essere il possibile movente di un delitto che altrimenti ne risultava assurdamente privo. Tanto più considerando il clima sociopolitico di quel periodo, stretto fra la strategia della tensione e gli attentati del partito armato.

* * *

La prima versione del delitto di Ostia, basata sulle prime notizie sommarie, fu quella pubblicata proprio dal “Corriere della sera” il 3 novembre 1975: Pasolini era stato ucciso dal solo Pelosi, e il delitto aveva come molla omicida l’omosessualità. Versione confermata dalla Corte d’appello circa un anno dopo (4 dicembre 1976): Pasolini era stato «massacrato» di colpi dal “ragazzo di vita” Pelosi, il quale poi ne aveva «schiacciato il corpo steso a terra con le ruote di una automobile».

La versione iniziale pubblicata dal “Corriere della sera” (Pasolini ucciso dal solo Pelosi) venne però smentita, pochi giorni dopo, da un’inchiesta del settimanale “L’Europeo” e della giornalista Oriana Fallaci. Secondo l’inchiesta del settimanale, basata su voci e testimonianze anonime, nella notte tra l’1 e il 2 novembre più persone uccisero il regista-scrittore. La sentenza di primo grado confermerà questa ricostruzione dei fatti (pluralità di assassini) sulla base di una serie di indizi, indizi che però la Corte d’appello riterrà ininfluenti.

Le due diverse ricostruzioni giornalistiche (e poi giudiziarie) prospettavano scenari molto diversi. Infatti, se l’assassino era il solo Pelosi, l’uccisione di Pasolini aveva come contesto il ghetto dell’omosessualità e come probabile movente un raptus ornofobico. Nel caso invece di una pluralità di assassini, il delitto di Ostia era stato, in tutta evidenza, un agguato con mandanti e esecutori.

Pur deplorando le strumentalizzazioni politiche, i giudici di primo grado ritennero che Pasolini fosse stato assassinato da più persone:

«Il clamore che l’episodio ha avuto sulla stampa, le interpretazioni non sempre obiettive e documentate che sono state proposte, la prospettazione di versioni contrastanti non basate su una “lettura” delle risultanze ma solo sulla scelta aprioristica di una verità di comodo, il settario schierarsi pro o contro una tesi in funzione di preconcette opinioni politiche, tutto ciò ha certamente resa più confusa sin dal primo momento l’indagine, inquinando quella serena atmosfera di ricerca della verità che era indispensabile in un caso così delicato. È questo clima che ha favorito il sorgere di testimonianze fantasiose, di rivelazioni interessate, di auto o etero accuse sostanzialmente pubblicitarie, di ricostruzioni mitomani degli avvenimenti. [...] Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo».

Cruciale, per il tribunale, la sproporzione tra i colpi e le ferite inferti a Pasolini e le escoriazioni riportate da Pelosi: «In una colluttazione tra due soggetti», argomentava il collegio, «a meno che uno non sia gravemente menomato sul piano fisico, è impossibile che uno solo dei contendenti riporti gravi ferite mentre l’altro esca praticamente indenne dalla lotta. Invece il Pasolini ha riportato rilevanti lesioni, mentre Pelosi non ha subìto significativi traumi. Eppure il Pasolini - come è notorio - non era un vecchio cadente incapace di organizzare una qualche difesa: era agile, aveva un fisico asciutto, praticava lo sport, giocava ancora a calcio in partite regolari».

Di parere opposto i giudici di secondo grado. Oltre a negare la validità complessiva degli indizi relativi al concorso di più persone, la Corte d’appello contestò in particolare questo punto:

«Attenta considerazione meritano poi, e soprattutto, la sproporzione fra le lesioni riportate da Pasolini e quelle riscontrate sull’imputato, la scarsità delle tracce di sangue di Pasolini sui vestiti di Pelosi... Che questi elementi possano spiegarsi con la partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare... [Ma] la sproporzione delle lesioni subite dai due contendenti può trovare piena spiegazione proprio ipotizzando che, invece che essere stato aggredito, sia stato Pelosi ad aggredire Pasolini, cogliendolo di sorpresa e menomandone fin dall’inizio la capacità di difendersi. Questa supposizione non è affatto contraddetta, come invece si prospetta nella sentenza impugnata, dall’agilità e robustezza fisica di Pasolini, che peraltro era di complessione fisica assai minuta (59 kg di peso e 1,67 m di altezza), poiché Pelosi poté valersi non soltanto della maggiore vigoria della giovane età, ma verosimilmente di una determinazione a offendere che in Pasolini mancò, e con tutta probabilità lo portò a colpire duramente per primo e d’improvviso...».

I giudici di appello, in sostanza, ritenevano «estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici». Tuttavia insistevano sul fatto che la versione del ragazzo assassino era comunque inattendibile: Pelosi aveva ucciso intenzionalmente, senza aver subito alcuna violenza e dopo aver accettato tutte le prestazioni sessuali chiestegli. Il suo era stato un omicidio doloso e senza attenuanti, come confermava il corpo della vittima schiacciato con l’automobile.

Dunque, più assassini per il tribunale, un solo assassino per la Corte d’appello. Ma quale era stato, secondo i giudici, il movente del feroce massacro? La sentenza di primo grado non lo indicava, ipotizzando varie possibilità:

«La mancanza di un preciso accertamento della causale del delitto non può portare alla esclusione della responsabilità... In realtà possono farsi varie ipotesi: che si volesse rapinare Pasolini, che gli si volesse dare una lezione per un precedente “sgarbo”, che si volesse proteggere il Pelosi alle prime esperienze e che un protettore vigilasse su di lui. Non esistono elementi - di fronte al mutismo sul punto del Pelosi, sempre ancorato alla sua versione difensiva originaria - che possano far preferire una delle causali sopra riportate o anche una causale diversa, allo stato non facilmente ipotizzabile».

Se il tribunale non spiegava perché più persone avessero massacrato Pasolini, la Corte di appello non spiegava perché lo avesse fatto il solo Pelosi, in una sequenza logica così presentata nelle conclusioni:

«Ritiene la corte che i lati oscuri che rimangono nella vicenda - ivi compresa la marginale incertezza intorno all’ipotesi che Pelosi abbia potuto non essere solo - non tolgono nulla alle certezze acquisite intorno alla natura dolosa del ferimento e del successivo investimento di Pasolini da parte dell’imputato. Si deve infine rilevare che questo giudizio non è minimamente ostacolato dal mancato appuramento dei motivi del delitto... L’impossibilità di identificare la causale del reato non pregiudica il giudizio di colpevolezza».

Dunque le due sentenze, discordi quanto a dinamica del fatto, concordano sui punti oscuri e sulla impossibilità di stabilire il movente di un delitto compiuto con tanta ferocia. Per cui si può affermare che anche il processo per il delitto Pasolini, come tutti i maggiori processi con implicazioni sociopolitiche della recente storia italiana, si è concluso con sentenze discordanti, lacunose è contraddittorie.

* * *

Per tentare di risolvere l’enigma dell’omicidio Pasolini occorre collocare i fatti nel contesto sociopolitico dell’epoca (contesto che entrambe le sentenze lasciano sullo sfondo - salvo i riferimenti dei giudici di primo grado).

Va premesso che Pelosi non aveva ragioni per uccidere Pasolini, anzi ne aveva di buone per non farlo: il regista-scrittore era una fonte di reddito facile, era una conoscenza importante e forse da utilizzare proficuamente in futuro (esempio: per avere una parte in un film, come risulta dagli atti). Inoltre, Pelosi era un ragazzo rozzo ma scaltro: per oltre un anno - dal momento
dell’omicidio alla sentenza di appello - non mutò di un millimetro la sua inattendibile versione dei fatti (la Corte d’appello sottolineò infatti la «accortezza con la quale in dibattimento
l’imputato ha cercato di attenuare, con parziali abili modificazioni, la portata di precedenti ammissioni», sgusciando con scaltrezza tra reticenze, bugie e contraddizioni). Va infine rilevato che Pelosi sin dall’inizio cambiò avvocato, scegliendo come difensore un legale che aveva difeso i giovani neofascisti autori di un altro atroce delitto al Circeo (una ragazza uccisa, un’altra gravemente ferita) [2].

Come attestano le evidenze dell’inchiesta e il buonsenso, Pasolini fu massacrato da più persone, con il Pelosi nel probabile ruolo di semplice “esca”. Sulla identità di chi abbia organizzato l’agguato c’è solo l’imbarazzo della scelta, nell’Italia di metà anni Settanta: dai servizi segreti in combutta con la criminalità organizzata, ai poteri occulti variamente assortiti, ai settori politici collusi con la malavita, alla microcrimialità della capitale. Quanto allo scopo dell’agguato, il più probabile è una delle ipotesi suggerite dal tribunale: un’intimidazione, si voleva “dare una lezione” a Pasolini (così come, un paio di anni prima, personaggi rimasti anonimi avevano “dato una lezione” all’attrice Franca Rame sequestrandola e stuprandola). È probabile che si volesse depotenziare, attraverso una violenta intimidazione capace di provocare uno scandalo, la voce del Pasolini “moralizzatore politico”. Il regista-scrittore praticava una omosessualità mercenaria con sottoproletari minorenni: una pratica tanto più “scandalosa”, quanto più egli era divenuto espressione di una radicale contestazione del sistema di potere egemonizzato dalla Dc, partito che Pasolini proponeva addirittura di sottoporre a una sorta di Processo palingenetico.

Pasolini doveva intervenire all’imminente congresso del Partito radicale, dove avrebbe letto un intervento nel quale riassumeva le forti tematiche politico-culturali che andava dibattendo
nell’ultimo periodo [3]. Il precedente agosto, sotto il titolo «Bisognerebbe processare i gerarchi Dc», aveva scritto:

«In conclusione, il Psi e il Pci dovrebbero per prima cosa giungere ad un processo degli esponenti democristiani che hanno governato in questi trent’anni (specialmente gli ultimi dieci) l’Italia. Parlo proprio di un processo penale, dentro un tribunale. Andreotti, Fanfani, Rumor, e almeno una dozzina di altri potenti democristiani, dovrebbero essere trascinati, come Nixon, sul banco degli imputati. E quivi accusati di una quantità straordinaria di reati, che io denuncio solo moralmente... Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla» [4].

Aveva poi ripreso quella stessa tematica così radicale sul “Corriere della sera” il 24 agosto 1975, e nelle settimane successive su “Il Mondo”: «E solo attraverso il processo dei responsabili che l’Italia può fare il processo a se stessa e riconoscersi» [5].

Commentai in dissenso la tesi pasoliniana del “Processo [6]. Pasolini mi rispose su “Il Mondo” il 16 ottobre 1975 (uno dei suoi ultimi scritti, due settimane prima di essere ucciso): lamentò il «silenzio da parte di tutti coloro che potrebbero parlare. Giorgio Galli che, di serio, non si limita ad avere il doppiopetto, si fa portavoce di quel silenzio, dicendomi, civilmente, che il processo sarebbe inutile. Ma il processo a Nixon è stato utile o inutile? D’altra parte, nell’ipotesi, del resto utopistica, che tutti i processi “fermi” fossero portati a termine da una magistratura indipendente e al di sopra del potere politico, si giungerebbe fatalmente al Processo di cui parlo io». In sostanza, è probabile l’intenzione di intimidire il polemista Pasolini intenzionato a processare la Dc: gli si voleva “dare una lezione” in una situazione tale - mentre pagava ragazzini per sodomizzarli - da screditarne per sempre, presso l’opinione pubblica (anche comunista), la figura di scrittore-moralista.

Quella della intimidazione è un’ipotesi del tutto verosimile: ci sono gli indizi, ma mancano le prove. È quello che Pasolini denunciava per le stragi della “strategia della tensione” che avevano insanguinato l’Italia (e per quelle che ancora sarebbero seguite, dopo la sua morte, fino a destabilizzazione conseguita): c’erano gli indizi, innumerevoli, ma mancavano le prove.
Le recenti ammissioni del Pelosi ormai cinquantenne («Non fui io a uccidere Pasolini, ma un gruppo di picchiatori»), nella sostanziale inerzia della magistratura romana, nulla aggiungono a una verità processuale lacunosa e contraddittoria. Confermano semmai che l’uccisione di Pasolini è l’ennesimo delitto politico insoluto della recente storia italiana.


.

Nessun commento: